· · Meccanica Computazionale · Metodo degli Elementi Finiti:
Modellazione · · INTRODUZIONE ALLA MODELLAZIONE FEM · Andrea Bacchetto · · INTRODUZIONE · Idea
di base dell’approssimazione · DISCRETIZZAZIONE DEL DOMINIO DI
INTEGRAZIONE ·
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INTRODUZIONE
Il Metodo degli Elementi Finiti (FEM) nasce in
sordina negli anni 60, ma successivamente allo sviluppo degli strumenti
informatici, ha una evoluzione ed uno sviluppo esponenziali, suscitando notevole
interesse per il vasto numero di campi cui è possibile applicare i suoi
principi. L’uso del FEM si afferma come uno dei migliori strumenti per
l’indagine quei sistemi complessi, per i quali indagini e sperimentazioni in
laboratorio comporterebbero spese eccessive, difficoltà logistiche e
difficoltà legate alla misurazione fisica delle varie grandezze. Se i primi approcci automatici per la soluzione delle
equazioni differenziali che governano i fenomeni fisici, si affermano con le
differenze finite, il FEM evolve le possibilità di soluzione dando una
possibilità di applicazione che non ha eguali, grazie alla sua inoppugnabile
flessibilità. La generalità del metodo, inizialmente sviluppato dagli
ingegneri e successivamente dimostrata anche dai matematici, ha permesso
moltissimi studi ed applicazioni, aprendo la strada a nuovi filoni di ricerca
che attualmente affrontano problematiche di notevole interesse di natura
teorica e pratica. Idea di base dell’approssimazione
L’idea base dell’approssimazione usata nel metodo agli
elementi finiti è quella di approssimare il vero andamento della funzione
incognita con quello di alcune funzioni particolari ad andamento noto:
generalmente polinomiali, ma anche trigonometriche ed esponenziali. Vengono
presi in considerazione un numero limitato di punti (chiamati anche nodi)
interni al dominio di integrazione, per i quali i valori della funzione
approssimata risulteranno identici a quelli della funzione approssimante. A supporto di tale affermazione citiamo il teorema di Weierstrass per il quale se una funzione f è continua
nell’intervallo [a,b] fissato un arbitrario e > 0, esiste un polinomio P(x) tale che:
Cioè ogni funzione continua può essere sufficientemente
approssimata da un polinomio di grado sufficientemente elevato È evidente come l’approssimazione lineare, che risulta
essere quella più semplice, è anche quella peggiore nella qualità
dell’approssimazione stessa. In accordo con il teorema di Weierstrass,
infatti, l’ordine del polinomio utilizzato nell’approssimare la soluzione
reale, infatti, influisce sulla precisione con cui si potranno valutare la
soluzione delle equazioni differenziali: più è elevato il grado, migliore
sarà l’approssimazione. Figura 1 In Figura 1 è mostrato chiaramente il principio di base
utilizzato nel metodo FEM: una volta suddiviso il dominio di integrazione in
intervalli (che possono essere anche non regolari), si procede ad
approssimare la funzione incognita con delle funzioni ad andamento noto,
scegliendo, come incognite del problema trattato, i soli valori ai nodi (hj). Dalla soluzione delle equazioni
algebriche si otterranno i valori nodali del campo approssimato; quelli
interni agli intervalli vengono valutati in base alle funzioni di
approssimazione utilizzate. Precisione dell’approssimazione
È
necessario sottolineare come la precisione dell’approssimazione dipenda,
oltre che dal grado del polinomio utilizzato, anche dalla dimensione
dell’intervallo di suddivisione: mantenendo, ad esempio, un polinomio
lineare, l’errore si riduce nella misura in cui vengono ravvicinati i nodi e
quindi di quanto vengono ridotti gli intervalli. Risulta evidente a questo punto come nel caso di
presenza di forti gradienti (pendenze) della funzione da approssimare,
risulti necessario infittire i nodi solo in tale zona piuttosto che in tutto
il dominio della stessa. Tale potente flessibilità è uno dei maggiori
vantaggi del FEM rispetto al FDM. Perché “Elementi Finiti” ?
Il termine elementi finiti fu utilizzato in un
articolo di Clough del 1960 dove il metodo fu
presentato per la soluzione di uno stato piano di tensione. Il termine deriva
dal fatto che il dominio di integrazione viene suddiviso in un determinato
numero di sotto-domini (vedi Figura 2), all’interno dei quali le equazioni
differenziali che governano il problema vengono risolte in maniera
approssimata nel senso espresso sopra. Figura 2 DISCRETIZZAZIONE
DEL DOMINIO DI INTEGRAZIONE
Uno dei passi più importanti dell’analisi strutturale è
l’idealizzazione della struttura che permette di passare dal modello fisico
a quello numerico. Tale passaggio comporta la riduzione del numero di gradi
di libertà che nel mezzo continuo sono infiniti, mentre, considerando solo
alcuni punti (nodi) della struttura, sono in numero, per l’appunto, finito. Si parla allora di discretizzazione della struttura
come quell’operazione che permette di passare dalla struttura reale e quella
idealizzata / approssimata / discretizzata per la quale è possibile applicare
il metodo degli elementi finiti al fine di ottenere una soluzione ingegneristica
del problema. Sapendo
inoltre che la soluzione mediante l’utilizzo di metodi numerici avviene per
mezzo di calcolatori elettronici, l’idea della discretizzazione è legata al
limite fisico che tali macchine possiedono a livello di immagazzinamento di
dati (memoria). Nonostante l’evoluzione della tecnologia degli elaboratori
abbia permesso di risolvere oggi dei problemi che qualche decennio fa erano
ingestibili per la grossa mole di spazio fisico necessario per memorizzare
dati di input e dati di output, la realizzazione del modello numerico risulta
essere tuttora un problema non ancora risolto in via definitiva. La modellazione della struttura costituisce quindi uno
dei passi più importanti dell’analisi strutturale, in quanto in questa fase
vengono infatti formulate diverse ipotesi che permetteranno la
semplificazione del modello reale: i risultati saranno influenzati da queste
assunzioni, che comunque, una volta note, permetteranno una corretta
interpretazione dei valori numerici. Una
breve introduzione alle molle
Prima di passare alla vera e propria discretizzazione
delle strutture, una nota sulle molle a comportamento elastico lineare è
d’obbligo: esse infatti rappresentano uno dei più importanti punti di
riferimento per la comprensione del comportamento di una struttura anche
complessa. Dall’impostazione classica dello studio delle strutture è usuale,
infatti, schematizzare i corpi con un insieme di molle. Tali molle possono
essere di tipo traslazionale o rotazionale a seconda che debbano rappresentare
gradi di libertà legati a spostamenti o rotazioni. La sollecitazione di sforzo assiale, ad esempio, può
essere rappresentata mediante una molla traslazionale (vedi Figura 3). Figura 3 La sollecitazione a momento flettente trova invece la
sua più semplice rappresentazione in una molla rotazionale (vedi Figura 4),
il cui valore di momento sviluppato è pari al prodotto della rigidezza e della
variazione di apertura angolare (M=kjj). Alcuni principi e regole di base sono importanti al
fine di un corretta comprensione di una struttura e la sua possibile
evoluzione a seguito dell’applicazioni dei carichi. Figura 4 Consideriamo ora una semplice molla traslazionale a
comportamento lineare:
dove
k è la rigidezza della molla, Dl è l’allungamento della
molla rispetto alla posizione di partenza (cioè in condizione scarica) e F è
la forza che è necessario applicare alla molla per deformarla di Dl
o, viceversa, la reazione che il vincolo della molla deve esplicare a seguito
di un allungamento pari a Dl. L’importanza dell’argomento molle è presto dimostrata:
si parla infatti di rigidezza di una struttura e di matrice di
rigidezza, intendendo quella funzione di trasferimento del sistema
dall’insieme delle forze applicate a quello degli spostamenti indotti. Per un
sistema non più governato da un’unica molla, e quindi non più da un solo
grado di libertà, ma da un insieme di molle, che rappresentano i vari gradi
di libertà che possiede un corpo, la relazione diventa la seguente:
dove K è l’operatore lineare detto anche matrice di
rigidezza, U è, nello spazio vettoriale di arrivo, il vettore
delle incognite e f è, nello spazio vettoriale di partenza, il vettore
dei termini noti. È degno di nota vedere inoltre come la scrittura formale
dei problemi descritti in (2) e (3) si presenti molto simile, potendo quindi
attribuire a k e a K un significato analogo, facilitando in tale maniera il
comportamento globale di una struttura. |
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